un inglese novantatreenne,veterano della seconda guerra mondiale,che ha raccontato la sua storia da prigioniero,infatti dopo essere stato catturato in Nord Africa dai tedeschi fu spedito in un campo di lavoro per prigionieri di guerra vicino al campo di Auschwitz,qui consegnò la sua uniforme inglese a un deportato ebreo e si fece passare per lui.Denis così per qualche giorno entrò nel lager simbolo dell’Olocausto "Auschwitz" vedendo con i propri occhi le ciminiere dei forni crematori,i cadaveri ammassati nel cortile e le condizioni miserevoli in cui si trovavano gli ebrei e gli altri prigionieri del campo,ascoltando i loro gemiti e urla di disperazione,mangiando la zuppa di cavolo marcio servita dagli aguzzini tedeschi e dormendo nei letti a castello infestati dai pidocchi.
TRAMA(dal libro)
Era un soldato inglese in Egitto quando fu fatto prigioniero dai nazisti e portato nel campo vicino al famigerato lager. Lì, Denis Avey si sostituì a un detenuto ebreo e passò due notti con la divisa a righe. Ora, a 93 anni, ha scritto la sue memorie e quell'incredibile avventura è diventata un bestseller.Bradwell (Derbyshire, Inghilterra). "I due campi di prigionia erano contigui: il nostro, di soldati inglesi, e quello degli ebrei. Lavoravamo insieme alla costruzione di una fabbrica della IG Farben, il colosso della chimica, che avrebbe prodotto una gomma sintetica indispensabile alla macchina da guerra nazista. Spartivamo gli stenti - undici ore al giorno a spaccarci la schiena - ma non le esecuzioni arbitrarie: quegli uomini ombra con l'uniforme a righe e il volto terreo morivano di continuo, ammazzati a calci e bastonate o stroncati dallo sfinimento. A noi i nazisti consentivano di sopravvivere. La sera, ci scortavano ai rispettivi campi: loro ad Auschwitz III, di cui sapevamo solo - sussurri tra disperati - che era l'inferno in terra. Noi all'E715, dove ci aspettavano baracche e rancio scarso, ma almeno la certezza di arrivare all'indomani". Denis Avey ritma le parole secondo la cadenza della sua collera infinita. A 93 anni portati come se ne avesse dieci di meno, è ancora un omone focoso, lentiggini e capelli rossi, un ex fuciliere di Sua Maestà che le battaglie le combatte fino in fondo. "Ero tormentato dal bisogno di sapere di più. Un uomo a righe mi aveva bisbigliato, "Tu che un giorno tornerai a casa, racconta", e quella supplica mi era entrata nel cervello come un tarlo".
Fu così che Denis Avey escogitò un piano, corruppe prigionieri e Kapò, rischiò la pelle, per entrare ad Auschwitz di sua volontà. Due volte. Un'impresa da pazzi.Eppure, quando alla fine della guerra tentò di raccontare, nessuno gli diede retta. Del conflitto si volevano ricordare gli atti di eroismo, non le atrocità. Così Denis si chiuse nel silenzio - e negli incubi- fino a un paio d'anni fa, quando gli chiesero di parlare in un'intervista. Poi scrisse le sue memorie, che ora escono in Italia: Auschwitz. Ero il numero 220543 (Newton Compton).
CITAZIONI
"...Non avevamo posate per tagliare il pane, ma c'erano degli specchietti, e io trovai il modo di romperli in grosse schegge da utilizzare come lame. Aggiunsi un manico di legno, e ne ricavai dei coltelli decenti che scambiai con un po' di cibo extra. L'economia del campo si reggeva sul baratto. Per sopravvivere dovevi avere qualcosa da scambiare..."
"...Il poeta Lovelace ha scritto che non bastano muri di pietra e sbarre per imprigionare lo spirito umano. Avevo letto quella poesia da piccolo, e ne avevo fatto il mio motto. Sapevo che non potevano tenere in gabbia la mia mente. Fintanto che riuscivo a pensare, ero ancora libero..."
"...I vivi venivano contati insieme ai morti, i cui cadaveri erano stati ammucchiati da un lato. I kapò contavano le teste, che appartenessero ai prigionieri ancora in piedi o ai corpi accasciati per terra. Finchè il numero dei prigionieri alla fine della giornata coincideva con quelle della mattina, per loro non faceva nessuna differenza che fossero vivi o morti...""...Una di loro teneva in braccio un neonato, che piangeva. Una SS marciava avanti e indietro lungo la fila. Lo vidi fermarsi per rimproverare la donna, prima di proseguire. Il piccolo continuava a piangere. La guardia avanzò di qualche passo, poi fece dietrofront, la raggiunse di nuovo e, con tutta la forza che aveva in corpo, sferrò un pugno in faccia al bambino. Calò il silenzio..."
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