26 gen 2011

PRIMO LEVI :La vita in un libro "SE QUESTO E' UN UOMO"

Più volte parlando della Shoa ho citato Primo Levi,anche perchè visse in prima persona la vita nei campi di sterminio:egli infatti fu deportato nel 1943 ad Auschwitz,dove fu sottoposto alle più atroci violenze fisiche e psicologiche.Questa allucinante esperienza egli la rilegge e ce la propone nel suo libro capolavoro, “Se questo è un uomo“, in cui racconta, nei minimi particolari, la sua vita di deportato, le condizioni igieniche e di lavoro, di quotidiano orrore nei lager. Levi narra con distacco l'abbruttimento e la decadenza della dignità che si impossessava del prigioniero,ancora prima che se ne rendesse conto lui stesso,insieme alla speranza,unico alibi che li teneva in vita e scrive senza rancore,vivisezionando gli avvenimenti come se stesse parlando di un esperimento,ed in effetti era proprio così: esseri umani ridotti ad animali da laboratorio,scientemente gestiti,scientemente ammazzati.

SE QUESTO E' UN UOMO...Sì non è più un uomo,chi si riduce (viene ridotto) allo stato di bestia per sopravvivere,ma anche chi ha messo in moto un perverso meccanismo di sistematica distruzione e morte,e chi ha obbedito per vigliaccheria o fanatismo,chi sapeva e ha fatto finta di non sapere,chi sospettava ma ha girato lo sguardo per non vedere,chi ora conosce la verità e continua a negarla.Adesso questo peccato, il non essere stati uomini pesa su tutta l'umanità,e l'unico modo di espiare e continuare a ricordare perchè tutto ciò non abbia a ripetersi,se vogliamo continuare a dirci uomini,dobbiamo ricordare cosa è successo nel passato,e per sentirci ancora uomini dobbiamo impedire a chiunque di rifarlo...Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue della vita, tutto è stato inutile”oggi, appartiene prepotentemente a tutti noi indistintamente ed è prepotentemente scritta a caratteri indelebili nel nostro cuore,ma se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue della vita, tutto è stato inutile… tutto è stato inutile
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Dal libro:
Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.”“Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine << Campo di annientamento >>, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.”“ Eccomi dunque sul fondo. A dare un colpo di spugna al passato e al futuro si impara assai presto, se il bisogno preme. Dopo quindici giorni dall’ingresso, già ho la fame regolamentare, la fame cronica sconosciuta agli uomini liberi, che fa sognare di notte e siede in tutte le membra dei nostri corpi; già ho imparato a non lasciarmi derubare, e se anzi trovo in giro un cucchiaio, uno spago, un bottone di cui mi possa appropriare senza pericolo di punizione, li intasco e li considero miei di pieno diritto. Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia , tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro.”

PRIMO LEVI LA STORIA:
Nato il 31 luglio del 1919 a Torino, da genitori di religione ebraica, Primo Levi si diploma nel 1937 al liceo classico Massimo D’Azeglio e si iscrive al corso di laurea in chimica presso la facoltà di Scienze dell’Università di Torino. Nel '38, con le leggi razziali, si istituzionalizza la discriminazione contro gli ebrei, cui è vietato l’accesso alla scuola pubblica. Levi, in regola con gli esami, ha notevoli difficoltà nella ricerca di un relatore per la sua tesi: si laurea nel 1941, a pieni voti e con lode, ma con una tesi in Fisica. Sul diploma di laurea figura la precisazione: «di razza ebraica». Comincia così la sua carriera di chimico, che lo porta a vivere a Milano, fino all’occupazione tedesca: il 13 dicembre del '43 viene catturato a Brusson e successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli, dove comincia la sua odissea. Nel giro di poco tempo, infatti, il campo viene preso in gestione dai tedeschi, che convogliano tutti i prigionieri ad Auschwitz.
È il 22 febbraio del '44: data che nella vita di Levi segna il confine tra un "prima" e un "dopo".

«Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato, allora e per noi» (P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi 1998, p. 15).
In fretta e sommariamente viene effettuata una vera e propria selezione: «In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente» (Op. cit., p. 17).
L’autore è deportato a Monowitz, vicino Auschwitz, in un campo di lavoro i cui prigionieri sono al servizio di una fabbrica di gomma. Al lager, persi nei loro pensieri, presi da mille domande, da ipotesi continue che per quanto catastrofiche, non si avvicinano neanche lontanamente alla verità, si ritrovano in pochissimo tempo rasati, tosati, disinfettati e vestiti con pantaloni e giacche a righe. Su ogni casacca c’è un numero cucito sul petto. I prigionieri vengono marchiati come bestie. Il loro compito: lavorare, mangiare, dormire, OBBEDIRE. Il loro intento: sopravvivere. Dietro quel numero non c’è più un uomo, ma solo un oggetto: häftling, cioè “pezzo”. Se funziona, va avanti. Se si rompe, è gettato via.

Levi è l’häftling 174517. Funzionante.Primo Levi è tra i pochissimi a far ritorno dai campi di concentramento. Ci riesce fortunosamente, grazie a una serie di circostanze e solo dopo un lungo girovagare nei Paesi dell'est.
Quale testimone di tante assurdità, sente il dovere di raccontare, descrivere l’indescrivibile, affinchè tutti sappiano, tutti si domandino un perché, tutti interroghino la propria coscienza: comincia a scrivere, elaborando così il suo dolore, il suo annientamento, il suo avventuroso ritorno a casa. Nel '47, rifiutato dalla Einaudi, il manoscritto Se questo è un uomo è pubblicato dalla De Silva editrice.Il libro ottiene un discreto successo di critica ma non di vendita. Solo nel '56 la Einaudi comincia a pubblicare tutti i suoi lavori: Se questo è un uomo è tradotto in diverse lingue, La Tregua vince la prima edizione del Premio Campiello. Nel '67 raccoglie i suoi racconti in un volume intitolato Storie naturali adottando lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Nel '71 esce Vizio di forma, nuova serie di racconti e nel '78 La chiave a stella che vince il Premio Strega. Nel '81 viene edita un’antologia personale dal titolo La ricerca delle radici nella quale sono raccolti tutti gli autori che hanno contato nella formazione culturale dell’autore. Nel novembre dello stesso anno esce Lilìt e altri racconti e l’anno successivo Se non ora quando? che vince il Premio Viareggio e il Premio Campiello. Nel frattempo Levi lavora anche come traduttore. Nell’ottobre del '84 pubblica Ad ora incerta e a dicembre Dialogo in cui riporta una conversazione avuta con il fisico Tullio Regge. Nel novembre dello stesso anno esce l’edizione americana del Sistema periodico e nel gennaio del '85 una cinquantina di scritti pubblicati precedentemente su diverse testate, raccolti in un volume unico intitolato L’altrui mestiere. Nel 1986 pubblica I sommersi e i salvati.l’11 aprile del 1987, Primo Levi moriva,gettandosi o cadendo dalla tromba delle scale della sua casa di Torino. Aveva 68 anni.La questione della morte è stata controversa e dibattuta nel tempo,tra chi parlava di suicidio e chi di incidente.Il suicidio di un uomo come Levi può essere letto come l’ultima opera scritta sull’inferno del Novecento.Il silenzio.La fine.Come nel suo “La Tregua” dove assieme alla fine della prigionìa e della lotta per la sopravvivenza si conclude anche un’esistenza; contro ogni comprensione ormai irrimediabilmente ridotta a pura materia.Tutto fa credere che il suicidio sia plausibile ancorché terribilmente affine alla logica lucida,inesorabile e umana che percorre i romanzi e gli scritti di Levi. Chi sopravvive porta con sé un gravoso fardello e un grosso debito nei confronti di chi non ce l’ha fatta.«L’ultimo appello di Primo Levi non dice non dimenticatemi,bensì non dimenticate».
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare...
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

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