Dove ci sono ancora case vuote, lì finisce Roma
si lacera di strade senza targa, dove la notte
è solo mani di rissa e crudeltà di cani.
Guardo lasciando che nel buio trasparente
cadano gocce rumorose. L’acqua
che non ha spessore, che non è diretta,
porta il suo ritmo verso il niente,
diviene solo danza ossessiva dei pianeti.
Nessuno sembra sveglio, qui; o sono tutti oltre-frontiera
lungo le scale e i corridoi cammino respirando
tornando a casa a bocca aperta, io solo testimone.
Qui la vittoria o la sconfitta sono sconosciute:
resta la ferocia delle cose. Non riconosco nulla
dalla finestra, è tutto uguale, è la polvere che vaga
dunque non c’è nient’altro dietro le nostre
vite: se non avessi l’ombra che si disegna sola,
quella di un cane a cui somiglio, sarei davvero
anch’io una cosa, abbandonata tra gli agguati,
di nuovo nel deserto della strada immobile.
Nel giorno identico che arriva tardi, senza sbagliare mai.
E invece abito ancora la mia casa.
Ma per quanto abiteremo, quante le generazioni
in una casa come questa? Brucia distrattamente
la sua prima vita di acque nere e battesimi
eppure so che resterà chiusa dopo me,
cedendo solo alle invasioni di insetti e muschi,
come se fosse la natura –
in un delirio senza affanno – ad insegnarle
ad essere abitata fino all’ultimo diluvio.
Abbandonata dai respiri,
già vanno e vengono famiglie cieche
di formiche: nella loro lontananza senza tempo
sanno l’essenziale, scavano tra i fossili di ragni
e grilli, vivono tra plastica non degradabile;
noi vivi invece non partecipiamo al gioco,
ci prepariamo all’abbandono. Solo la casa
è onnipotente; e se io non so guardare
dalla stessa prospettiva degli insetti
nelle crepe, sento nella notte i movimenti
minimi, il fruscìo che abita per poco
la vita in cui si fugge.
7 giu 2011
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