19 feb 2011

Mohammad Alì (Cassius Clay) 17 gennaio 1942

Qualche tempo fa un mio amico amante della Boxe mi ha consigliato di vedere un film "Alì"(sulla storia di Cassius Clay )...Da quel momento mi sono appassionato alla sua storia,e la visione del film è stata l'occasione per avere una visione più ampia sulla persona più che dell'atleta,vista la mia incompetenza sulla Boxe..Cassius Clay  come tutti sappiamo da tanti anni lotta contro il morbo di Parkinson con lo stesso coraggio e la stessa baldanza che aveva sul ring,incurante dei suoi impacci motori,delle sue limitazioni fisiche.E così,quando compare,come alle olimpiadi di Atlanta per accendere il fuoco olimpico(lo ricordo benissimo),ogni suo gesto,per quanto sofferto,è un evento...Non c'è sportivo o protagonista del nostro tempo che abbia travalicato i confini del suo ambiente,del suo mondo come Mohammad Alì-Cassius Clay per diventare un simbolo positivo,una persona accettata da tutti,anche da chi in quegli anni(anni 70),lo detestava per quella presunzione di voler essere molto più del grande pugile che era,molto più di quel meraviglioso innovatore della boxe,alla quale aveva tolto violenza e regalato spesso le movenze di una danza,la gioia di una festa,lo stile quasi di un'arte.
All'epoca lui,giovane pugile di Luissville,apparentemente superbo,aveva voluto dar voce approfittando della sua fama,ad un popolo,quello di milioni di afroamericani discriminati che più di 40 anni fa,non avevo un punto di riferimento e faticavano a far valere i propri diritti,non avevano ancora conquistato negli Stati Uniti quei diritti che spettano a ogni individuo..e in questo Alì fu importantissimo!!!Per questo la vicenda umana e sportiva di Alì, afroamericano del Kentucky nato nel 1942, è emblematica della commistione tra sport e politica.Curioso il fatto che proprio lui sia stato uno dei pochi pugili di colore a non avere fatto i conti con un'infanzia "di strada": la sua famiglia non gli ha mai fatto mancare l'essenziale e l'approdo alla boxe è stato più lo sbocco naturale di una passione che non, come per tanti altri, la ricerca spasmodica di riscatto da una condizione di miseria disperante.Già da dilettante si espresse al massimo: alle Olimpiadi di Roma del 1960 il 18enne Cassius Clay conquistò la medaglia d'oro dei pesi massimi,lasciando presagire un futuro radioso tra i professionisti. Ma ecco l'incrocio fatale con il destino: di ritorno a casa, il giovane Cassius doveva amaramente constatare che il titolo olimpico non era affatto garanzia di conseguita parità sociale nei confronti dei suoi connazionali di pelle bianca. Respinto da un locale il cui accesso era proibito alle persone di colore, il neo-olimpionico avrebbe sfogato la profonda amarezza gettando la medaglia d'oro appena conquistata da un ponte sul fiume Hudson.
Vero o leggendario che sia, l'episodio ha segnato indelebilmente il destino di un uomo, creando le premesse perché un grande pugile diventasse anche un personaggio epocale. Ben presto Cassius Clay si sarebbe legato ai movimenti nati dalle tensioni razziali di quegli anni,convertendosi all'islam e aderendo al gruppo dei  "musulmani neri",caratterizzato da posizioni dure nei confronti di tutto ciò che poteva sfociare nel razzismo e di tutti i  diritti negati agli americani neri....Nel frattempo la sua carriera professionistica decollava: il mondo pugilistico internazionale assisteva all'esplosione di questo peso massimo dalle caratteristiche uniche, alto e muscoloso ma di aspetto aggraziato, potente ma agilissimo sul ring, fedele al motto "danza come una farfalla e pungi come un'ape". Prendeva corpo nell'immaginario collettivo l'idea del pugile-ballerino, sfuggente, imprevedibile, velocissimo e implacabile.Nel 1964 ottenne il diritto di sfidare il campione in carica, Sonny Liston: pur sfavorito dal pronostico,irretì l'avversario danzandogli intorno per 6 riprese,mandandolo poi K.O. nel corso della settima.Fu subito chiaro che la corona dei pesi massimi era passata a un campionissimo: in quello che fu il momento più brillante della sua carriera difese il titolo 8 volte e per tre anni non apparve all'orizzonte nessuno in grado di oscurarne la fama.Intanto il personaggio si manifestava in tutte le sue caratteristiche di scomodità: rinnegato quello che chiamava il "nome da schiavo" con il quale risultava registrato all'anagrafe e ribattezzatosi Mohammed Alì prese a sfruttare le proprie straordinarie doti di comunicatore per calamitare l'attenzione del pubblico su se stesso,provocando e sensibilizzando al razzismo al punto che  rivendicava la superiorità della razza nera su quella bianca ...Fece leva sull'ineguagliabile istrionismo che lo caratterizzava, etichettando con l'epiteto di "Zio Tom" (emblema letterario del nero americano condiscendente al ruolo subalterno nel quale lo costringeva il potere dei bianchi) qualsiasi altro pugile di colore che non condividesse le sue idee estreme e la sua battaglia ideologica. Va ricordato come nell'America degli anni '60 le tensioni razziali abbiano toccato un vertice mai più eguagliato: accanto a movimenti non violenti come quello capeggiato dal reverendo Martin Luther King

 se ne affermarono altri come quello di Malcolm X, al quale Muhammed Alì aderì, almeno per qualche anno. Nel 1967,a guerra del Vietnam appena iniziata, Alì, con la famosa frase "nessun Vietcong mi ha mai chiamato sporco negro e io non ho nulla contro quella gente", rifiutò di aderire alla chiamata alle armi. Per inciso, va detto che si sarebbe trattato di un arruolamento del tutto simbolico (perché ovviamente nessuno avrebbe spedito a combattere in prima linea il campione del mondo dei pesi massimi): l'idea era evidentemente quella di sfruttarne l'immagine a fini propagandistici.Sta di fatto che il plateale gesto di Alì costringeva la nazione - non solo sportiva,a quel punto - ad una presa di posizione dura e senza remissione. Muhammed Alì fu privato d'autorità del suo titolo,squalificato a vita,costretto all'inattività;e condannato ad una pena detentiva di 5 anni ...Il suo caso fece un incredibile scalpore, trasformando il pugile del Kentucky un punto di riferimento verso coloro che volevano la pace da questa guerra ingiusta. Polemiche roventi divamparono tra i fans di Alì e i suoi detrattori: il personaggio non sembrava in grado di suscitare sentimenti diversi dall'approvazione più entusiastica, contrapposta all'odio più viscerale. Presto si sarebbero affermati fenomeni di emulazione nel mondo dello sport: l'anno successivo, il "mitico" 1968, avrebbe visto due velocisti americani di colore, Tommie Smith e John Carlos, inscenare un importante e significativa forma di protesta durante la cerimonia di premiazione dei 200 metri all'Olimpiade di Città del Messico, gara per la quale avevano conquistato rispettivamente le medaglie d'oro e di bronzo. (vedi foto).

La vicenda umana e sportiva di Alì non era certo conclusa: il movimento di opinione che si mise in moto in seguito alla sua squalifica e detenzione dette i suoi frutti. Nel 1969 Alì venne scarcerato, l'anno successivo riottenne il diritto a boxare tra i professionisti e, dopo due incontri di preparazione, eccolo pronto a combattere per riprendersi la corona mondiale. Si profilava, atteso come nessun altro incontro di pugilato nella storia, "The Fight", il combattimento: e prometteva scintille, perché il pugile che avrebbe difeso il titolo dall'assalto di Alì era un campione "vero".Joe Frazier non godrà mai della fama imperitura di Muhammed Alì ed il suo nome resterà probabilmente legato soprattutto a quell'incontro e ai successivi, che ancora lo avrebbero visto incrociare i guantoni con "Il più grande".Ciò non toglie che sia stato un pugile formidabile e che, tra l'altro, proprio nel 1971 fosse all'apice della carriera; mentre su Alì pesavano certamente i 3 anni di inattività forzata, scarsamente compensati dai soli due incontri che aveva potuto sostenere in preparazione al match per il titolo.
L'evento fu consumato l'8 marzo, in un Madison Square Garden stipato in ogni ordine di posto: i preziosi biglietti vennero contesi fino all'ultimo e molti "alti papaveri" del mondo della politica, della finanza e dello spettacolo rimasero esclusi. Al termine di uno dei match più belli e combattuti della storia della boxe Joe Frazier si impose ai punti, infliggendo a Muhammed Alì la prima sconfitta della carriera, gettando nello sconforto i numerosi fans di quest'ultimo.Peraltro, il destino avrebbe riservato ad Alì un'altra chance: contro tutti i pronostici, avrebbe riconquistato il titolo 3 anni dopo per poi conservarlo, tra alterne vicende, fino al 1978. Ne sarebbe seguito il ritiro definitivo e la progressiva uscita di scena, resa più crudele dalla malattia che gli avrebbe tolto progressivamente la mobilità.
Di Gianni Minà frammenti di una sua intervista:
Non gli ha mai fatto difetto,d'altronde,la dignità e nemmeno l'ironia.La sera dell'81 in cui, a 39 anni, tornò sul ring dopo tre anni di inattività e si fece picchiare per la prima volta senza sapersi difendere da Larry Holmes,suo ex sparring-partner,il mite Larry,nella conferenza stampa, non finiva di elogiarlo: “Quest'uomo mi ha insegnato la boxe, quest'uomo mi ha insegnato la dignità, mi ha insegnato a vivere, non potrò mai dimenticarlo...” . Alì, che per la prima volta nascondeva gli occhi dietro un enorme paio di occhiali da sole per coprire le tumefazioni, a quel punto non resistette più. Si appropriò di un microfono e rivolgendosi ad Holmes, sarcasticamente chiese: “Ma allora perché mi hai menato?”  E ottenne un'ovazione ed un applauso da capo di Stato
“Chi avrebbe mai dato retta a un ragazzo nero nato in Kentucky, figlio di un artista di strada che disegnava santi sui marciapiedi, se non avesse conquistato contro quel “cattivo” di Sonny Liston, nel '64, il titolo di pugile più forte del mondo? - mi ha risposto beffardo Muhammad Alì un giorno che cercavo di capire il perché dei suoi antichi comportamenti. Ed ha continuato: “Le mie qualità di pugile tecnico, veloce di gambe e di braccia, innamorato della fantasia, insomma il mio modo di stare sul ring e di provocare l'avversario più con gli atteggiamenti irridenti che con la volontà di fargli male, non sarebbe servito a niente se io non avessi capito quasi subito che dovevo utilizzare i mezzi di comunicazione invece di farmi usare, se veramente volevo rendere manifesto il mio disagio, la protesta, il dolore, le richieste, l'orgoglio della mia gente. Dovevo utilizzarli quei microfoni che mi buttavate davanti alla bocca, dopo le mie vittorie. Dovevo sputare le mie sentenze, le mie sfide possibili o esasperate sui vostri taccuini, cercando di precedere le vostre domande, imponendo i miei argomenti ai vostri. Così forse ho contribuito alla presa di coscienza e alla crescita della mia gente perché ho cercato di cambiare il rapporto fra un pugile, un atleta e la società in cui vive. Allora molti non me lo perdonavano. Ora la più grande soddisfazione della mia vita è di essere stimato anche da quella metà dell'America che non mi amava, che mi detestava perché non mi capiva, che mi chiamava “comunista” perché mi rifiutavo ad andare a combattere in Vietnam in nome, invece, della mia fede religiosa, quella dei musulmani neri”.

Qualche sera dopo la sua apparizione dal buio della notte per accendere il fuoco olimpico con un gesto sofferto ma fermo che aveva commosso fino alle lagrime il pubblico dello stadio di Atlanta e tutti gli spettatori televisivi, mi ha spiegato ancora: “Adesso tutti hanno capito la mia buona fede e la morale delle mie battaglie. E sono dispiaciuti del torto che ho subito quando, nel '67, fui privato del titolo mondiale, cioè del mio lavoro, per quel rifiuto alla guerra in Vietnam e riammesso a combattere nel '70, dovetti aspettare fino al '74 per riprendermi, contro Foreman, il titolo che nessuno mi aveva mai tolto sul ring. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha cambiato la legge sull'obiezione di coscienza a causa del mio caso. Tutto questo non sarebbe accaduto se io non avessi tentato di essere non solo il pugile che ero, ma anche l'uomo che volevo essere”.
Muhammad Alì che in quegli anni formidabili investiva di parole i media con una velocità e perizia che gli valsero il soprannome di “labbro di Luiswille”, adesso parla a fatica,con una voce roca,solo con gli amici più cari, spesso facendosi aiutare da Lonnie, la sua tenerissima quarta moglie,madre del suo ultimo figlio, il nono.
“Era la figlia della signora che aiutava mia madre in casa quando ho cominciato a diventare ricco. Un giorno le dissi: “Se continuerai ad essere così bella e brava, ti sposerò. Lo dissi per scherzo, ma anni dopo, quando già avevo avuto tre compagne della vita e otto figli, mi ritrovai in un momento difficile. Guardai dall'altro lato della strada e la ragazzina era diventata una donna. Le chiesi di poter rispettare la mia promessa. Mi rispose che aspettava da sempre che io lo facessi.”
Un paio di anni fa, nella fattoria in cui vive a duecento miglia da Chicago, mi ha detto: “Il mio Dio mi ha dato talmente tanto nei primi quarant'anni della vita, che se anche adesso mi toglie qualcosa con la malattia che ho, devo comunque dirgli grazie perché sono ancora in debito con il destino rispetto a quello che hanno avuto e hanno miliardi di altri esseri umani.” Il morbo di Parkinson è una malattia che attacca la corteccia celebrale. Può essere dovuta a traumi della boxe ma non obbligatoriamente, visto che colpisce anche le donne. Il campione non ha mai voluto accettare che forse il suo ritorno sul ring, a 39 anni contro Trevor Berbick e Larry Holmes, quando non era più in grado come una volta di “danzare come una farfalla e pungere come un'ape”, insomma di sviare o attutire i colpi, possa aver contribuito all'insorgere della malattia.

“Sono ritornato non solo perché il fisco degli Stati Uniti è spietato e voleva da me alcuni miliardi per colpa di chi mi aveva amministrato - mi ha detto ancora quel giorno in quella “farm” che, ridendo, giura sia stata prima di lui proprietà di Al Capone - Sono tornato perché dopo essere stato l'unico peso massimo che, vincendo contro Leon Spinks a New Orleans nel '78 aveva conquistato tre volte la corona mondiale più importante della boxe, volevo tentare di fare quello che non era riuscito di fare a nessuno, nemmeno al grande Joe Louis, il quarto titolo. C'è tanta gente al mondo che rinuncia prima di provare e la colpa spesso non è sua ma del contesto, della società nella quale nasce e vive, delle possibilità che gli sono concesse. Io avevo dimostrato che si poteva diventare qualcuno anche venendo dal niente, anche quando si vince una medaglia olimpica e poi, tornato a casa, ti dicono che devi salire nella parte posteriore di un bus, perché la porta anteriore è riservata ai bianchi. Io ho vissuto in un'epoca non lontana nella quale accadevano queste cose e un ragazzo come me, per rabbia, poteva decidere di buttare la medaglia d'oro conquistata a Roma nel fiume Mississipi. Così volevo ricordare, tornando sul ring, che se hai fiducia in te stesso niente è impossibile, ma forse ho osato troppo, perché evidentemente non si può sfidare il tempo.”

Io c'ero, quella notte al Superdome di New Orleans, forse il più grande stadio al coperto del mondo, nel quale, vent'anni fa, il trentaseienne Muhammad Alì scrisse una pagina definitiva sul chi è stato il più grande pugile degli ultimi quarant'anni e non tanto perché si prese la rivincita su Leon Spinks conquistando per la terza volta la corona dei pesi massimi, ma perché quell'evento, indipendentemente dal suo valore tecnico, fu, dopo la leggendaria sfida con Foreman a Kinshasa (Congo) nel '74, il più grande spettacolo mediatico dell'epoca legato allo sport, più di una olimpiade, più di un mondiale di calcio. D'altronde Alì lo aveva dichiarato sempre, quando iniziava le conferenze stampa in quei magici sette anni, dal '71 al '78, nei quali fece diventare la boxe,lo spettacolo più visto,via satellite,del mondo:
“Nessuno, nemmeno il presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, richiama tanti giornalisti, televisioni, fotografi quanto me.” Ed era vero. Eravamo migliaia ed eravamo lì solo per lui, perché, dopo i tre scontri con Joe Frazier (due vinti e uno perso, proprio quello dell'affrettato ritorno dopo il verdetto della Corte Suprema) e la conquista del titolo con Foreman, non ci fu praticamente alcun avversario, salvo Ken Norton, che divenne famoso anche per il film “Mandingo”, capace di metterlo veramente in difficoltà. E Alì aveva ammesso:” Joe Frazier è stato l'avversario che mi ha fatto più soffrire, molto più di Norton. Non si faceva infatti condizionare dalle mie provocazioni ed era un grande colpitore sotto, allo stomaco, un tipo di attacco che non mi era mai piaciuto. In quel memorabile incontro fra due protagonisti di questa seconda parte del secolo, Muhammad Alì era accompagnato dalla moglie e dal fido amico fotografo Howard Bingham, oltre che da me, spiegò anche, per l'ennesima volta, che la leggendaria sfida del '74 contro George Foreman, in Congo la vinse prima di salire sul ring.Ho seguito l'avventura sportiva e umana di Cassius Clay poi diventato Muhammad Alì per più di trent'anni. Non l'ho mai visto tradire il suo impegno, il suo spirito indomito. All'epoca della guerra del Golfo, nel '91, andò in Iran, forte della sua fede islamica e ottenne da Saddam Hussein la liberazione di un centinaio di cittadini degli Stati Uniti. Due anni fa è stato anche a Cuba, con una delegazione della Croce Rossa per portare aiuti umanitari. Lo scortava per tutta l'Isola Teofilo Stevenson. Tre volte olimpionico nei pesi massimi, l'avversario predestinato per il “match del secolo” che non si svolse perché Stevenson, fedele al socialismo cubano, non passò mai al professionismo. Muhammad, come altri, si sforzava in quel momento, di trovare una soluzione per risolvere l'ormai antistorico embargo degli Stati Uniti verso l'isola di Castro. Anche in quel frangente il campione di Louisville era coerente a se stesso, in un'epoca dove tutto è in vendita o, se non è in vendita, si può affittare. Nel 1998 Muhammad Ali è nominato Messaggero di Pace delle Nazioni Unite. La sua storia personale, di uomo e di sportivo, ha percorso le tappe fondamentali della storia americana degli anni ’60 e ‘70.

Nessun commento: