26 dic 2010

Victor Jara l'eroe....Rafael Videla il dittatore... storie sudamericane!!!

Un meraviglioso pezzo di Pippo Pollina IL GIORNO DEL FALCO dedicata al cantautore cileno Victor Jara imprigionato e ucciso a Santiago del Cile pochi giorni dopo il golpe dell'11 settembre 1973,con
questo pezzo Pippo denuncia quella dittatura e ci da pure la possibilità di ricordare un episodio personale del nostro diamante emigrante,infatti quando Pippo a Zurigo si trovò davanti Pinochet  fu preso da mille pensieri (l'ammazzo? Gli sputo in faccia?) e riuscì solo a chiedergli se era davvero lui, in spagnolo, prima di vederselo sottrarre dalle guardie del corpo.Appena a casa chiamò i suoi amici esuli cileni e organizzarono una manifestazione...E compose questo pezzo:


La storia di Victor Jara
“Su, cantaci una canzoncina ora!”. Parole militari. Parole di sarcasmo. Parole di regime.I militari di Augusto Pinochet, un paio di settimane prima di pronunciarle, avevano cominciato a fare il loro dovere di scorticatori di democrazia: era l’11 settembre del 1973, Salvador Allende era già diventato martire della Repubblica Cilena, e i cileni che lo avrebbero ancora voluto come presidente cominciarono a ritrovarsi ammassati in una specie di campo di concentramento chiamato Estadio National de Chile. Deportati: circa cinquemila. Tra questi Victor Jara, 41 anni, professione: cantante e regista di teatro.
Neanche troppo tempo prima, Victor Jara in quello stadio c’era stato più di una volta; a cantare. Sì, perché tante volte un’idea la si può esprimere anche accompagnandosi con una chitarra e facendosi applaudire da quelli a cui piace il modo in cui fai susseguire i suoni e le parole.
 Evidentemente a molti cileni quella voce e quelle schitarrate piacevano....
E cominciò a cantare. Cose piuttosto strane anche, tipo Preghiera ad un lavoratore, Manifesto, Canto libero. Un pazzo! Ma non poteva continuare a fare solo il regista? Non poteva continuare con Mandragole, Sofocle e Bertolt Brecht?(...) A Victor Jara piaceva pure la chitarra, perché quell’altra sventurata di sua madre era stata una cantante, e ad un certo punto, prima di lasciarlo orfano a 15 anni, volle insegnargli giusto quattro accordi per strimpellare. E quando Victor, dopo due anni di seminario e alcuni altri di esercito, torna a Lonquen, dov’era nato, comincia a bazzicare la musica popolare e la politica e non si ferma più: nel ’66 esce "Victor Jara", nel ’67 "Canzoni popolari d’America", l’anno dopo "Pongo en tus manos abiertas", quello dopo ancora "Canto Libre", nel '71 "El derecho de vivir en paz", e nel ’72 "La Poblacion". Ma avete visto che razza di titoli? Un pazzo! Erano dunque arrivati gli anni ’70. E con essi la sciagurata idea di cui sopra e quella di trascinare nel medesimo destino prossimo venturo anche il movimento della Nueva Cancion Cilena, di cui Victor Jara resterà per sempre una colonna portante. Poi arriva il 1973, l’11 di settembre per la precisione: Victor Jara viene catturato e condotto nello stadio di Santiago del Chile. Vi rimase, vivo, per un paio di settimane. Durante la prigionia, in quello stadio che ora porta il suo nome, non aveva la sua chitarra, ma una penna sì, e ci scrisse poesie e canzoni. L’ultima pare che sia datata 23 settembre, e s’intitola Estadio Chile  “Su, cantaci una canzoncina ora!”... e gli spezzarono le dita, e poi le mani. Intanto, visto che oltre ad una penna gli era rimasta anche la voce, mentre lo torturavano Victor Jara intonò la Canzone del Partito di Unità Popolare, che evidentemente ai militari non piaceva tanto. Tant’è che lo uccisero, a colpi di pistola.
(da Settembre 1973: Estadio Chile, le dita spezzate di un musicista)



La storia di Victor Jara mi porta a parlare dell'Argentina e della notizia di questi giorni "la condanna a morte dell'ex dittatore Jorge rafael Videla:
L’ex dittatore (85 anni), è stato condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità. E’ accusato di aver fatto uccidere decine di dissidenti durante la dittatura militare, tra il 1976 e il 1983.Videla è stato indicato come il principale architetto di quella che viene chiamata “la guerra sporca” d’Argentina. Ad aprile era già stato condannato a 25 anni di carcere per il suo ruolo durante la terribile repressione della dittatura militare. Oggi, secondo i giudici, l’ex dittatore è “criminalmente responsabile” della morte e delle torture inflitte a 31 prigionieri politici incarcerati a Cordoba, tra aprile e ottobre del 1976.La maggior parte degli attivisti di sinistra furono prelevati dalle loro celle della Unitad Penal 1 (UP1) subito dopo il golpe militare e freddati con un colpo senza alcuna possibilità di salvezza. Secondo la versione dell’esercito, gli uomini furono uccisi perché “tentarono di scappare”. All’epoca il generale Videla era uno dei membri delle forze di sicurezza che si macchiarono dell’atroce carneficina.

Leggo dall'Unità:
Stiamo festeggiando da due giorni l’ergastolo al generale Videla», dice da Buenos Aires Angela, Lita, Boitano, classe 1931, madre di Michelangelo e Adriana, due dei trentamila desaparecidos. Festeggiando? «Non esattamente... non è una vera festa. Sono a casa... ecco, festeggiamo dentro di noi. Ogni volta che c’è giustizia anche per una sola delle vittime della dittatura, c’è giustizia anche per tutte le altre... Il processo era a Cordoba, ma qua a Buenos Aires abbiamo potuto seguirlo in videoconferenza. A parte quello di Videla ci sono stati altri quindici ergastoli. Ogni volta che il presidente del tribunale diceva “ergastolo” si sentiva un applauso... ».



El general Jorge Rafael Videla, 85 anni, capo della giunta militare che governò l’Argentina dal 1976 al 1983, gode di ottima salute. «È il più in gamba...», dice conamara ironia Lita Boitano. Ed è stato condannato a scontare l’ergastolo inun carcere comune. Ecco, è questo l’aspetto della sentenza che dà maggiore soddisfazione: el carcel comun per il capo della giunta militare. Indica una “pista investigativa”, sancisce un’acquisizione storica: che il golpe del 1976 non fu un affare dei soli militari.
«Il giorno prima della sentenza – racconta Lita Boitano - Videla si è alzato in piedi e ha fatto una dichiarazione di quasi cinquanta minuti. Hadescritto l’aspettativa che in certe parti delle società e dell'imprenditoria esisteva per l’intervento militare. Hanuovamente chiamato in causa Ricardo Balbin, il leader dell’Unione civica radicale, sostenendo che in qualche modo “sollecitò” il golpe... Certo, Balbin è morto ormai da vent’anni, e il suo partito ha smentito. Ma il punto è che questa condanna non chiude un ciclo, ma può aprirne uno nuovo... Ci sono ancora tante cose da scoprire».
IL SEQUESTRO DEI FIGLI
Lita Boitano - marito genovese, padre di Treviso, cittadina italiana - deve ancora scoprire molte cose della sua tragedia familiare. Ha seguito tutti i processi, ha girato il mondo. È stata tra le prime madri che chiedevano giustizia in Plaza de Mayo quando i militari erano ancora al potere. Nel 2001 è stata nominata da Ciampi commendatore della Repubblica italiana per il suo impegno nella difesa dei diritti umani. È oggi presidente dell’Associazione dei familiari dei desaparecidos. Ma non ha mai avuto giustizia per sé. Non ha mai potuto costituirsi parte civile in un processo per la morte di Michelangelo e Adriana. «Non ho le prove - spiega - Non ho le prove perchè mancano i testimoni».Michelangelo scomparve il 29 maggio del 1976. Lo portarono all’Escuela Mecanica de la Armada, la famigerata Esma. I desaparecidos che finirano in quell’inferno nel primo periodo della dittatura, fino al giugno del 1976, sono stati quasi tutti uccisi. Il nome di Michelangelo è stato trovato in una lista di reclusi. «Ma ancora non basta. Deve saltar fuori qualche testimone». Adriana fu rapita il 24 aprile del 1977, dopo essere uscita dalla chiesa, sotto gli occhi di Lita: «Vididue uomini che la caricavano su una macchina». Anche di lei non si è avuta più alcuna notizia.
Un dolore così atroce sovverte la gerarchia della sofferenza. Può succedere di avvertire addirittura come “fortunata” la condizione dei familiari dei prigionieri politici: «Davvero ragionavamo così. Spesso ci dicevamo: “Almeno li avessero arrestati”.
Avremmo saputo dove si trovavano, avremmo potuto sperare di vederli tornare liberi».
Nel processo di Cordoba, Videla doveva rispondere della morte di 31 di questi detenuti politici. Udienza dopo udienza, i loro familiari e quelli dei desaparecidoshanno sfogliato, attraverso il racconto dei testimoni, un agghiacciante catalogo di atrocità. Hanno scoperto l’arte combinatoria del sadismo. La conferma di storie che da tempo si raccontavano. «Una donna seppe che suo figlio stava per essere liberato. Andò ad aspettarlo fuori dal carcere. Non usciva. Chiese spiegazioni. Le dissero che era stato rilasciato la sera prima... Sì, era stato rilasciato,masubito l’avevano sequestrato. In pochi istanti era uscito dalla lista dei detenuti politici ed era entrato in quella dei trentamila desaparecidos».
LA FRATELLANZA DEL DOLORE
Da quando Michelangelo e Adriana scomparvero sono passat i34anni. Michelangelo era del 1956, Adriana del 1952. I sopravvissuti della generazione dei desaparecidos oggi sono uomini tra i 55 e i 60 anni. Sono stati loro i principali testimoni d’accusa nel processo contro Videla.«Hannoraccontato per la prima volta in pubblico cose che non avevano mai dettonemmeno ai loro familiari. Una donna ha descritto la violenza sessuale che subì davanti ai figli. In molti hanno avuto bisogno dell’assistenza psicologica. Sono esperienze dolorosissime, e certo non le hanno sopportate per loro stessi».
C'è un filo che lega le vittime delle atrocità. Un anno fa Estela Carlotto, la presidente dell’associazione delle nonne di Plaza de Mayo, ha incontrato in pubblico a Roma Giulia Spizzichino, che perse sette familiari alle Fosse Ardeatine. Chi c’era non dimenticherà il miracolo di quel giorno: la vita che rifiorisce nell’incontro del dolore. Lita Boitano ha assistito a delle udienze del processo per la strage nazista di Sant'Anna di Stazzema. «C’era un unico sopravvissuto - ricorda - un uomo ormai vecchissimo. Gli hanno chiesto se odiava i tedeschi. Ha risposto che non odia il popolo, masolo quelli che hanno ucciso... ».
Estendere il numero degli assassini è, infatti, unatecnica difensiva. Videla, quando ha parlato dei complici del golpe, non l’ha fatto certo per collaborare con la giustizia, ma per tentare di diluire le proprie responsabilità. E, coerentemente, ha tentato di presentare i propri crimini come la conseguenza necessaria di una situazione politica che non poteva essere aggiustata altrimenti. Ha rivendicato tutto.
«Era sorprendente - dice Lita Boitano - vedere le facce degli imputati al momento della sentenza. Videla e l’altro generale sotto processo con lui, Luciano Benjamin Menendez, avevano uno sguardo di sfida. Videla anche il giorno prima, mentre leggeva la sua dichiarazione, guardava il giudice in quel modo. Era immobile, di pietra, con quello sguardo di superiorità.Comese davvero credesse di aver agito per la Storia. Invece quelli del servizio penitenziario guardavano per terra. Sono stati loro i torturatori. Allora avevano vent’anni. l’età di quelli che torturavano. Ma non credo che si vergognassero. Solo, non avendo avuto una formazione militare, non erano in grado di assumere un contegno adeguato».
Festeggiamo con Lita Boitano l’ergastolo di Videla. Alla fine della conversazione ci dice unacosa che ci sorprende e che ci fa a maggior ragione condividere la gioia. «Durante la sua dichiarazione ha spesso citato Gramsci ». Gramsci in bocca a Videla? «Sì. È livido contro i Kirchner. Attribuisce a loro la fine dell’impunità. I militari erano convinti che avrebbe goduto di eterna protezione e i Kirchnernon gliel’hanno data. Così li odiano. Videla li ha accusati di essere dei comunisti gramsciani. Ha detto proprio così: comunisti gramsciani





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