L’unico filo conduttore,in questo caso più che mai,è il sangue e la sofferenza di popoli devastati dall’orrore,dall’irrazionalità e dalla barbaria della guerra.E’ un libro che ti penetra dentro proprio come schegge di mine antiuomo,quelle che in più di sessanta paesi del mondo sono ancora presenti e che, più crudelmente di una pallottola,lasciano dietro di sé mutilati e invalidi civili destinati a diventare,oltretutto,inutili costi sociali per i governi che ne dovranno affrontare cure e mantenimento.Sembra impossibile che esistano ancora così tante atrocità in un mondo che si ostina a definirsi civilizzato, ma la verità, troppe volte ancora negata dall’informazione di massa, è quella che si legge fra le righe di questo libro.Sono 110 milioni i pappagalli verdi presenti in 67 paesi.
Non si tratta di dati forniti da animalisti i quali probabilmente sarebbero soddisfatti di un numero così elevato che salverebbe dal rischio di estinzione i curiosi e simpatici volatili.Purtroppo non sono a rischio di estinzione i pappagalli verdi di cui parla Gino Strada si tratta di mine antiuomo che, con la loro forma graziosa somigliante a un giocattolo,attirano l'attenzione soprattutto di bambini che, appena li toccano,muoiono,ridotti in brandelli,o restano ciechi o perdono una gamba o tutte e due. In un istante la loro vita se ne va o resta cambiata per sempre.Una vita passata su una carrozzella o saltellando su due stampelle o camminando faticosamente sulle protesi.Le mine antiuomo costanopochissimo,per la maggior parte come dicevo sono prodotte in Italia.Per disinnescarle i costi sono altissimi e occorre molto tempo e l'opera precisa di esperti, non priva di rischi.Nella bellissima prefazione al libro di Strada, Moni Ovadia definisce le mine antiuomo "fiori metallici dell'infinita infamia umana"
La conferma di questa definizione la dà una soldatessa, una donna-cecchino di Sarajevo che aveva centrato la fronte di un bambino con il suo fucile ad alta precisione. Intervistata nel buio di una stanza che le consente l'anonimato, alla domanda dell'intervistatore: "Perché una donna spara ad un bambino di sei anni?", risponde: "tra vent'anni ne avrebbe avuto ventisei".I luoghi in cui si muove Strada sono molti: dal Kurdistanall'Afganistan, dall'Etiopia a Sarajevo, dal Pakistan al Perù.Con il suo team costruisce ospedali, spesso sotto le bombe.Arrivano morti e feriti. Il lavoro è sempre un'emergenza.Capita anche che i feriti siano tanti e tanto gravi e il tempo così avaro da costringere il gruppo di chirurghi a fare una scelta,il triage che è uno dei momenti più tragici di una vita vissuta sempre a contatto con la morte.Con il triage i chirurghi,loro malgrado,debbono decidere chi potrà vivere e chi dovrà morire.Eppure la vita di questi folli sembra scorrere normale.Non mancano momenti di allegria,perfino di divertimento,ma il dolore delle vittime pesa sempre sul cuore generoso di
questi convinti oppositori di ogni guerra perché,della guerra hanno sperimentato la mostruosa essenza.
Ciò che colpisce,del libro,è la figura antieroica di Gino Strada.Si dice entusiasta del suo lavoro che vive anche con sensi di colpa perché lo tiene lontano dalla moglie(quando l'ha scritto Teresa Sarti era ancora viva) e dalla figlia.Eppure,nonostante le lunghe assenze da casa,si capisce che il rapporto con la moglie e la figlia è sempre stato saldo,molto più saldo di certi rapporti in cui la presenza del marito e del padre è costante.Nella straordinaria dedica che Gino Strada offre alla moglie Teresa, alla fine del libro, del suo lavoro dice: "A qualcuno sarà stato utile. Che cosa abbia guadagnato non lo so. So di certo che cosa ho perso".Caro chirurgo di guerra,assumendo il dolore delle vittime,hai dato molto di
quell'amore che ancora tiene il mondo in piedi.E Moni Ovadia, alla fine della sua prefazione dice: " I tempi delle palingenesi rivoluzionarie, assolute e totalizzanti sono finiti,ma ci sono luoghi di rivoluzione nei posti più impensati e uno di questi luoghi è sicuramente il bisturi di Gino Strada.
Dal libro:
“A Sarajevo la chiamano the snipers’road, la strada dei cecchini.La si deve percorrere per raggiungere l’ospedale, lo stesso dove vengono portate, il più delle volte inutilmente, le loro vittime.L’ultimo arrivato è un bambino biondo, centrato in piena fronte da una pallottola. Il sangue non cola più, impregna i capelli, ormai coagulato e quasi congelato per il gran freddo. Stava giocando sulla neve, a meno di un chilometro dall’ospedale, risaliva un piccolo dosso trascinandosi dietro una tavola di legno e poi giù, strillando di allegria su quella slitta improvvisata.Un colpo, e il bambino è morto.
In guerra si uccide, perché la guerra la si fa contro qualcuno. Contro il nemico, per quel che rappresenta o per quel che possiede, si usano i cannoni e si bombarda.Ma quella del cecchino è una guerra strana. Il suo lavoro non produce centinaia di vittime, la sua arma è semplice, un fucile di precisione: un colpo, un morto.C’è qualcosa, nella guerra del cecchino, che fa più orrore delle bombe.
Attraverso il binocolo del fucile, il bambino biondo lo si può vedere grande grande, come se fosse lì accanto. Lo si può veder giocare, fare smorfie nel rotolarsi sulla neve fresca.
È lui il nemico, anche se la sua sola arma è quel pezzo di legno che usa come slitta. Il binocolo non inquadra eserciti minacciosi che avanzano, solo la faccia di un bambino come fosse in fototessera. Non lo sa, il nemico, di essere osservato, non sa che la sua fronte lentamente si muove fino a occupare il centro della croce del binocolo del cecchino.E forse sorride, mentre viene premuto il grilletto.
In inglese, the snipe è la beccaccia. E il verbo to snipe significa “sparare da una posizione nascosta”, proprio come si fa con le beccacce. Ma come si fa a uccidere, se la beccaccia ti sta sorridendo?
Un cecchino di Sarajevo si lascia intervistare in una stanza quasi buia. Mi sembra incredibile: è una donna. Una donna che spara a un bambino di sei anni? Perché?“Tra vent’anni ne avrebbe avuti ventisei”, è la risposta che l’interprete traduce.
l freddo diventa più intenso, fa freddo dentro. L’intervista finisce lì, non c’è altra domanda possibile.”A emergency vanno i diritti d'autore del libro
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