Questo che consiglio è sicuramente uno dei libri più belli e commoventi che abbia mai letto sulla shoah.La vita nei lager viene descritta con quell' originalità e quel pizzico di ironia che non ci si aspetterebbe mai da una storia dal genere,e che rivelano l' ottimismo di un ragazzo che anche in una condizione estrema come la sua riesce ancora a trovare speranza nella vita.In particolare sono stupende la pagine finali,davvero commoventi.E' un libro che raccomando a tutti,e sicuramente uno tra i migliori documenti sull' esperienza nei campi di concentramento insieme a "Se questo è un uomo" di Primo Levi.....
E’ un libro che racconta un fatto reale,perché l’autore,nato a Budapest nel 1929 è stato deportato nel 1944 ad Auschwitz e liberato a Buchenwald nel 1945.Ho letto altri suoi libri(questo è il più bello) e tutti tornano sempre sull’argomento dell’internamento,un pò come Levi.... IL protagonista di Essere senza destino si chiama Gyurka,è ebreo e non ha neanche 15 anni quando una sera deve salutare il padre,costretto suo malgrado ma con stoica accettazione a partire per l”Arbeitsdienst.Alla domanda sul perché agli ebrei sia riservato un simile trattamento il ragazzo non vuole trovare un senso,non ha l’età e la voglia di aggiungere sovrastrutture agli accadimenti,li accetta,li vive,lascia che gli attraversino il corpo,che lo invadano con quella invadibilità che solo la Superma Tragedia può effettuare.E,quando anche lui viene arruolato per il lavoro forzato e poi è costretto a partire per la Germania,sono,in fondo,la voglia di vedere un pezzettino in più di mondo,l’ansia di crescere,l’impulso vitale a predominare.E’ questa attitudine disarmante a devastare che legge,almeno,io,lettore,sono stato devastato,colpito,trafitto.... Attraverso la detenzione,intorno alla detenzione,c’è una suprema e universale descrizione dell’umano,negli orrori che vengono guardati con consapevolezza e non giudicati,in ogni caso fonte di curiosità, delle bellezze che sono,quando si sta veramente male anche gli odori della solita zuppa del lager. C’è una narrazione che tocca i meccanismi del ricordo e della memoria,perché è profondamente vero che tutti,in condizioni di dentenzione o riduzione delle libertà, penseremmo alle cose piccole, alle giornate normali,a quello che abbiamo sprecato, ai pomeriggi noiosi,alle pietanze non apprezzate.In quei momenti,a differenza del solito, non cercheremmo di certo quello straordinario, quel qualcosa di speciale che ci ossessiona nelle nostre tranquille giornate, impauriti ma al sicuro, riparati da trincee di merci e di cibo, coi corpi bistrati, lustrati, dimagriti, abbigliati. I corpi, nel lager, piano piano scomparivano, come scomparivano le fisionomie, come scompariva il modo usuale di guardare, di camminare, di stare dentro ai vestiti. Il piccolo Gyurka racconta questo e racconta un fatale succedersi di momenti, ordini che non vengono motivati e a cui si obbedisce prima ancora di averli capiti, una serie di azioni che porta alla distruzione di sé. La sopravvivenza è casuale anche se lo sguardo del ragazzo e dello scrittore che non ha dimenticato e che continua a porre al centro del suo narrare l’esperienza concentrazionaria, è uno sguardo che mira a “mettere in scena ” l’uomo nella sua più cruda e drammatica essenzialità, con la leggerezza, a tratti, di chi è scampato, e il disincanto di chi non si fa scudo di ricette o di preconcetti o ideologie, ma solo di quel “disarmante”, concezione antica, poco gettonata, parola che fa rima con purezza e in questo libro indimenticabile fa rima con capolavoro.
Alla domanda su come si possa descrivere l'orrore dei lager, Kertész risponde di pensare di trovarsi in quelle condizioni dodici mesi l'anno, sette giorni la settimana, ventiquattro ore al giorno, sessanta minuti all'ora, sessanta secondi al minuto e così all'infinito, senza altro destino. Alla domanda su come si sopravviva, risponde andando avanti secondo per secondo, minuto per minuto, ora per ora, giorno per giorno, finchè l'ostinazione di essere un uomo ti sorregge....
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