Questa era l’umanità della famiglia Cervi
La Storia della famiglia Cervi
La vicenda storica della famiglia Cervi parte dalla terra.I Cervi,infatti,sono come ho detto una famiglia contadina,calata nel territorio e nella tradizione della media pianura padana,più precisamente la bassa reggiana.Alcide Cervi e Genoeffa Cocconi nascono negli ultimi decenni dell'ottocento,in provincia di Reggio Emilia.Hanno nove figli,sette maschi(Ettore, Ovidio, Agostino, Ferdinando, Aldo, Antenore e Gelindo)e due femmine (Diomira e Rina)un numero non straordinario per le famiglie contadine di quel tempo,dove il nucleo domestico era una sorta di piccola società allargata a fratelli, nuore, zii e nipotini.In casa di Alcide e Genoeffa era comune veder circolare libri ed opuscoli, nonostante la scolarizzazione nelle campagne fosse molto bassa a quel tempo,i loro figli erano stati allevati con l'amore per la lettura ed il sapere.Una passione che i Cervi trasferirono subito nel loro lavoro,procurandosi volumi e pubblicazioni, sulla coltivazione,contadini attenti ad ogni opportunità per crescere e formarsi,per imparare qualcosa di nuovo da sperimentare sul loro podere.È il caso dei numerosi corsi professionali e di specializzazione che i fratelli Cervi frequentarono per migliorare conoscenze ed applicazioni sia nei campi,sia nella stalla.La famiglia Cervi come tutti,assiste all'ondata repressiva che,dal 1924 in poi,il fascismo scatenerà sulla nazione.Tanti antifascisti e dissidenti vengono colpiti dallo stato di polizia che il regime distende sulla vita pubblica degli italiani. Tra i Cervi,il primo a conoscere le pene del carcere è Aldo,per una ingiusta condanna durante il periodo di leva.Mentre la famiglia continua a chiedere giustizia,Aldo passa venticinque mesi dietro le sbarre a Gaeta,dove ha modo di conoscere i prigionieri politici,intellettuali ed esponenti dei movimenti antifascisti che sono in carcere per le proprie idee contro il nuovo potere dittatoriale.È proprio il carcere che porta Aldo a conoscere le teorie politiche antifasciste e ad interpretare il proprio impegno per la libertà in modo più maturo e consapevole.Essere antifascisti durante il regime,però, significava agire in stretta clandestinità ed al ritorno dalla detenzione,Aldo Cervi è ben consapevole del rischio ed,insieme ai fratelli ed ai familiari,iniziano da subito a condividere quell'impegno.Anche la cultura,a cui i Cervi sono tanto appassionati,era caduta sotto i colpi del regime.Non stupisce,dunque,l'iniziativa della famiglia per l'istituzione di una biblioteca popolare,allo scopo di diffondere liberamente libri e riviste di ogni tipo.Aldo e la sua famiglia sono consapevoli che lo studio e la circolazione delle idee sono il primo antidoto contro la propaganda e l'arroganza della dittatura,come amavano dire:Studiate,se volete capire la nuova idea !!!Nelle campagne, il regime faceva sentire la sua morsa attraverso "l'ammasso", una sovratassa sui raccolti imposta a tutti gli agricoltori.In pratica una porzione dei prodotti agricoli veniva confiscata ed "ammassata" in depositi pubblici a disposizione delle autorità, togliendo letteralmente il pane di bocca alle famiglie contadine.
I Cervi, ben consci della dura vita nei campi, coniugano la lotta ideale con una fiera opposizione alle vessazioni del fascismo sui contadini ed incitano alla rivolta contro "l'ammasso" i lavoratori dei campi, al grido:«W il pane. W la Pace».Tutta la famiglia è ormai coinvolta nell'opposizione al regime.Uno dei più attivi insieme ad Aldo è Gelindo,il primogenito della famiglia;già "ammonito" dalle autorità nel 1939 per la sua attività sediziosa,e successivamente incarcerato, Gelindo finisce in carcere(insieme al fratello Ferdinando),proprio per aver ostacolato "l'ammasso" della produzione agricola.Sarà la guerra ad accelerare gli eventi;trascinando l'Italia nel secondo conflitto mondiale nel 1940,il fascismo precipita la popolazione nella miseria e nella prostrazione.Mentre i soldati del Duce muoiono al fronte,il controllo del regime sul malcontento e la fame si sfalda, prendono sempre più coraggio le voci degli antifascisti che chiedono, appunto, "Pane e Pace".Il bilancio della guerra al fianco della Germania nazista si fa sempre più fallimentare, finché il fascismo crolla ed il suo dittatore Mussolini viene arrestato.Pare la fine dei lunghi anni di violenze ed ingiustizie ed anche a Casa Cervi si festeggia tanta è la gioia per la notizia,che la famiglia porta una grande pentola di pastasciutta in piazza a Campegine per festeggiare,insieme alla popolazione, la caduta del regime.La guerra, però, non è ancora finita e sta, anzi, per entrare nella sua fase più cruenta.Dopo l'8 settembre 1943,le truppe tedesche occupano militarmente il suolo italiano la Pianura Padana ed i monti del centro-nord Italia diventano un vero e proprio teatro di guerra,costellato di scontri e rastrellamenti,ma anche azioni di resistenza dei partigiani che difendono la propria terra.I Cervi, abituati all'azione e ad anticipare i tempi,sanno che bisognerà combattere per la libertà dall'occupazione tedesca ed ancora una volta dal fascismo, resuscitato sotto la protezione delle armi naziste.Iniziano la lotta armata a partire da questa casa,che diventa un centro di smistamento per rifugiati e rifornimenti ai partigiani.
La Resistenza dei Cervi è intensa ma molto breve; dopo le prime azioni in pianura, i sette fratelli ed alcuni compagni cercano di organizzarsi nella montagna, ma in poco tempo sono costretti a ritornare a casa.È il 25 novembre dello stesso anno, quando tutta la "banda Cervi" viene sorpresa nella loro cascina ai "Campi Rossi".I militi fascisti, dopo uno scontro a fuoco, appiccano un incendio al fienile ed alla stalla.A questo punto la famiglia si arrende ed i Cervi vengono trascinati via dai fascisti,lasciando nella casa,che ancora brucia,solo donne e bambini.I sette fratelli Cervi rimangono in carcere a Reggio Emilia sino a quando i fascisti decidono la loro fucilazione come rappresaglia ad un attentato dei partigiani.Nei ricordi di papà Cervi,anch'egli imprigionato ed ignaro della sorte dei figli,vi sono le ultime commoventi frasi di commiato di Gelindo e di Ettore,il più giovane dei sette.
L'estremo sacrificio dei sette fratelli Cervi e del loro compagno Quarto Camurri, consumato all'alba del 28 dicembre 1943 al poligono di Reggio Emilia,rappresenta uno spartiacque per la Resistenza reggiana dapprima scompaginato dalla cattura e dalla barbara uccisione di quella che era di fatto la sua punta avanzata,il movimento partigiano si riorganizza,facendo di quel martirio un simbolo per gli altri resistenti. Seguendo anche l'esempio dei Cervi, la Resistenza reggiana istituisce una stamperia clandestina, per diffondere messaggi e volantini d'informazione, di incitamento alla lotta, di speranza.Soltanto il 25 aprile del 1945,il giorno della Liberazione, anche a Reggio Emilia,si potrà festeggiare, dopo tante sofferenze, la fine della guerra e l'inizio di una riconquistata libertàPer la famiglia Cervi, la Liberazione è un momento di gioia, ma dal sapore diverso; dopo l'ennesima intimidazione dei fascisti alla famiglia,pur colpita già duramente dalla guerra,la madre Genoeffa Cocconi cede al dolore e si spegne nell'autunno del 1944,lasciando gli undici nipotini,le quattro vedove ed il vecchio Alcide.Per papà Cervi ed il resto della famiglia sarà possibile riavere le spoglie dei sette fratelli soltanto diversi mesi dopo il 25 aprile,per tributare loro le solenni esequie.Davanti alla folla silenziosa che si raduna a Campegine, il 25 ottobre 1945, per l'ultimo saluto ai fratelli Cervi, Alcide ha la forza di prendere la parola, per dire con commossa ma lucida saggezza:Non chiedo vendetta, ma giustizia… Dopo un raccolto ne viene un altro. Andiamo avanti”.
ALCIDE CERVI
“Perché ho deciso di raccontare”.Tu, Alcide Cervi, scrivi un libro? Io non ci ho mai pensato, a questo. Né avrei potuto farlo. Quando l’anno scorso andai a Genova, al Congresso dei partigiani, una madre mi abbracciò e mi disse: papà Cervi, anche a me hanno ammazzato il figlio. Era l’unico figlio. Ma che è uno, per te che ne hai perduti sette? Io le alzai il viso dalla spalla mia e dissi: – Tu ne avevi uno, e quello ti hanno preso. Io ne avevo sette, e sette me ne hanno presi. È lo stesso. Non c’è diversità. E che differenza c’è con la bambina Clara Cecchini, di Valla, che le hanno ucciso padre e madre? Aveva solo quell’amore, e gliel’hanno tolto. Era di otto anni, allora, e vennero i tedeschi a casa sua e dissero ai famigliari che uscissero sotto il pergolato, si mettessero bene in fila, ché gli volevano fare la fotografia. La bambina si assestò i capelli, e volle dare la mano alla madre, in fila con gli altri. I tedeschi con una sventagliata di mitra li massacrarono tutti. E lei, Clara, restò solo ferita, ma non si mosse vicino al padre e alla madre morti, e restò lì come un cadaverino finché non vennero i partigiani. E che paragone c’è con la madre di La Bettola, che allorquando i tedeschi per odio bruciarono persone umane in piazza, le strapparono il figlioletto dalle braccia e lo buttarono nel fuoco? Questi sono dolori grandi, che offendono la vita. Io avevo sette figli, cresciuti con quarant’anni di fatiche, e mi preparavo a togliere il fastidio, ché già arrivavo alla settantina. Invece mi hanno mietuto una generazione di maschi, e la madre è andata via con loro dopo un anno, così io sono rimasto con quattro donne e undici nipoti piccoli, con un fondo di 56 biolche da lavorare. Hai tempo per soffrire, hai tempo come la madre di La Bettola, che si trova più libera di prima, più libera di pensare alla bambina sua? La vita non mi ha offeso, voglio dire, mi ha aiutato, perché dovevo campare ancora qualche anno, avere ancora forza di lavorare, per tirare su un’altra generazione, e prima non dovevo morire. Eppure, non mi sono distratto mai dai figli. È tante volte che racconto la storia loro, e mi ci sono abituato, ma ogni tanto sento le parole mie e mi sembra ancora impossibile, rimango ammutolito e allora sento la morte. Ho ottant’anni, adesso, e posso pure togliere il disturbo, perché i nipoti sono cresciuti e sostituiscono i miei figli. Ecco perché finora non ho pensato al libro. L’importante era salvare la famiglia e la terra. E parlare, predicare, in memoria loro, la pace e l’antifascismo. Questo l’ho fatto, ma oggi posso fare qualcosa di più, perché ho smesso di lavorare e mi hanno messo in pensione, però io taglio lo stesso il fieno e accomodo le sedie. Non serve a niente, ma a me serve. La notte, quando il sonno se ne va leggo, e in una di queste veglie ho pensato: se raccontassi la storia dei figli miei? Tante cose non le ricordo, perché il dolore ha falciato la memoria, ma un padre di famiglia si fa sempre intendere sui figli. La storia della mia famiglia non è straordinaria. Vedete, qui a Reggio ci sono i cinque Manfredi, fucilati dai fascisti, e i tre Miselli. Da noi trovate famiglie unite come le dita di una mano, e sono unite perché hanno una religione: il rispetto dei padri, l’amore al progresso, alla patria, alla vita e alla scienza. E soprattutto, noi, contadini emiliani, amiamo la patria e il progresso. Così non si ha paura di morire. Avete mai visto quelli che quando parlano in pubblico diventano rossi? Non è mica perchè sono timidi e modesti, ma perché sono superbiosi. Mica vedono la gente, vedono solo la persona loro e si impressionano ché li guardano. Così quando la morte li guarda sentono paura e si trovano soli, perché hanno terrore della morte come avevano paura della vita. Il sole non nasce per una persona sola, la notte non viene per uno solo. Questa è la legge, e chi la capisce si toglie la fatica di pensare alla sua persona, perché anche lui non è nato per una persona sola. I miei figli hanno sempre saputo che c’era da morire per quello che facevano, e l’hanno continuato a fare, come anche il sole fa l’arco suo e non si ferma davanti alla notte. Così lo sapevano i Manfredi, i Miselli, i tanti partigiani morti, e non si sono fermati davanti alla morte. E ora essi sono con noi in questa terra di Emilia dove le viti si abbracciano alle tombe, dove un lume e un marmo è la semente di ogni campo, la luce di ogni strada. Io sono stato eletto al Comune di Gattatico, e quando mi hanno chiesto che assessorato volevo, ho detto: quello per la cura dei cimiteri. Non sono mica fissato o vespiglione, io ho chiesto quell’assessorato perchè era come avere due ministeri: quello per la giustizia e quello per l’istruzione. Non mi curo solo delle erbacce e di tenere pulito, faccio andare i bambini, le donne, tutti, a onorare i compagni partigiani caduti, e sfido il maresciallo che non vuole bandiere e canti, e parlo sempre davanti ai compagni morti. Difendo la memoria loro e insegno ai giovani. Questi sono i miei due ministeri. Così mi sono deciso, e adesso che ho più tempo perché c’è da aspettare solo che venga il biglietto, voglio difendere la memoria dei miei figli e dei partigiani dai becchini fascisti e dai riarmasti tedeschi.
Ci ho messo tempo, a decidere, perché la storia della mia famiglia non è straordinaria, è la storia del popolo italiano combattente e forte. Per questo, tu padre di famiglia che hai perduto il figlio in guerra, e tu madre che hai avuto il figlio ucciso dai fascisti, sentilo tuo questo libro, sentilo storia anche dei figli tuoi. Solo così mi sentirò meno superbioso. E poi, chi sa scrivere! E la memoria si prepara a lasciarmi in libertà. Perciò mi sono deciso a raccontare, soltanto come posso, la storia dei figli miei. Io parlo troppo in questo libro, lo so. Ma è perché i miei figli sono morti e io invece sono vivo. Parlo anche di me, troppo, e se qualche parola che fu dei miei figli sembra diventata mia, è perché non ricordo chi la disse, ma era come se l’avessero detta tutti e sette e io con loro. Perché anche nella vita eravamo così: otto eravamo uno e uno tutti e otto. Ma un’altra cosa voglio dire, per coscienza. Aldo mi ha dato quel poco che ho d’intelligenza politica, e io a lui ho dato il senso della protesta. Aldo è sempre stato la testa della famiglia. Quando studiava e non veniva nei campi l’ho sempre lasciato lavorare, perché era capitale anche quello, e più importante del fondo. Questo lo voglio dire chiaro perché chi ha cultura non pensi sbagliato sul nostro conto, ché siamo riusciti a fare certe cose solo con le braccia o perché siamo più spicciativi degli intellettuali. Vedete, per esempio, il paragone con la quercia. Mi hanno detto sempre così, nelle commemorazioni: tu sei una quercia che hai cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta. Va bene, la figura è bella e qualche volta piango, nelle commemorazioni. Ma guardate il seme. Perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo.
ALCIDE CERVI
Guarderemo il seme Papà Cervi,l’ideale vivrà per sempre nelle nostre teste,nel nostro cuore,nel nostro agire,proveremo sempre ad essere all’altezza di tutte quelle donne e di tutti quegli uomini caduti per renderci liberi in un Paese libero
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