Gianna salita in montagna il 10 ottobre 1943, fu certamente una delle prime partigiane d’Italia. La sua attività nel movimento di liberazione si svolse sui monti a nord di Udine fino al rastrellamento del novembre ’43; quindi in pianura come staffetta e nei Gruppi di difesa patriottica (GAP) fino alla primavera del ’44, quando, ricercata dal comando della SD di Udine, fu di nuovo chiamata in montagna, dove trascorse l’esaltante periodo delle zone libere, quindi il durissimo ultimo inverno di guerra, tra i pochi partigiani rimasti sui monti, braccati dai cosacchi. Partecipò alla liberazione di Udine e continuò la sua attività come responsabile dei feriti partigiani, finché la situazione si normalizzò.
Il suo racconto:
Fidalma Garosi “Gianna” proveniva da un paese del ferrarese e già all’età di 11 anni cominciò ad andare in risaia, un lavoro faticoso e malsano che la mise, ancora quasi bambina, di fronte alla dura realtà della fatica quotidiana, ma che le insegnò il senso della protesta e della ribellione di fronte i soprusi e alle discriminazioni. Era infermiera all’ospedale di Udine quando, il 10 ottobre 1943, salì in montagna: era ricercata dai tedeschi perché riforniva di medicinali i partigiani.Raccontava:
“ Lì all’ospedale c’era la falegnameria dell’ospedale, dove c’erano lavoratori che erano quasi tutti partigiani ed io andavo lì con loro, perché essendo emiliana non andavo mai fuori e non andavo mai fuori perchè in Friuli faceva freddo e io allora non avevo neanche il cappotto.
C’era il capo falegname, l’elettricista, poi c’era Marcolin, che era quello che portava il pranzo nei reparti. Erano degli uomini di un lignaggio meraviglioso e mi hanno anche dato dei libri adatti a me e ho imparato molto da quei libri, ma non avevo capito bene la strada....
Quando lavoravo in ospedale già nel ’42 ero già in collegamento con i partigiani sloveni e rubavo all’ospedale cotone, garze, alcol, tintura, tutta roba per medicazioni per ferite.
All’ospedale ho dovuto scappare parecchio prima di andare a fare la partigiana perché mi ero esposta troppo alla caduta del fascismo e i tedeschi erano venuti a cercarmi e sono scappata dalla cella mortuaria. Mi ero esposta con i malati perché abbiamo fatto festa tutta la notte, abbiamo rotto il quadro di Mussolini e del Re.
Io ero già di sinistra e sono andata in montagna per seguire i miei ideali. Non conoscevo ancora mio marito, l’ho conosciuto là, quindi non ho avuto influenze da nessuno.
Quando sono arrivati i tedeschi (dopo l’8 settembre ’43), noi donne andavamo alla stazione dove c’erano i treni chiusi sprangati pieni di militari italiani che venivano mandati in Germania. Buttavano giù i bigliettini con il nome e l’indirizzo affinché scrivessimo a casa loro, avvisando le famiglie che erano partiti per la Germania. Noi li raccoglievamo e poi spedivamo le lettere.
I soldati tedeschi intanto ci colpivano con il calcio del fucile.
Le donne vestivano con i vestiti dei mariti o dei figli i soldati che scappavano, perché sapevano che qualche altra donna lo avrebbe fatto per i loro cari e infatti così è stato.”
Generalmente i comandanti partigiani le donne in montagna non le volevano. La loro presenza veniva generalmente considerata con diffidenza e con imbarazzo, nei casi migliori come qualcosa di anacronistico. Del resto le donne salivano in montagna solo quando era assolutamente necessario, cioè quando la loro attività era stata scoperta e dovevano quindi sparire dalla circolazione per non farsi arrestare. E anche “Gianna” per motivi di sicurezza e forte volontà personale si dovette rifugiare in montagna presso le formazioni formate esclusivamente da uomini. Inizialmente dovette svolgere le mansioni tradizionalmente attribuite alle donne, come far da mangiare, pulire, lavare i piatti e i panni, ma poi si impuntò e riuscì a svincolarsi da tali lavori, pretendendo la parità di trattamento.
Ricorda ancora “Gianna”
“ All’inizio a noi donne non volevano prenderci... Abbiamo avuto quindici giorni difficili per farci accettare, perché io volevo fare quello che facevano gli uomini e se mi avessero accettata così bene, altrimenti io qui così, a fare solo i lavori da donna, non voglio starci.
Così abbiamo riunito i compagni, abbiamo comunicato al Comando che avevamo intenzione di parlare con loro: “ la nostra scelta non era questa... beh eravamo infermiere, avevamo un impiego buono, eravamo considerate dai nostri malati, cominciamo a parlarci chiaro: la nostra scelta è quella di venire qui e fare quello che fate voi”. E loro: “ ma guardate che noi andiamo in azione, in combattimento, andiamo in azione di notte, facciamo la guardia di notte”. Al che noi replicavamo:“e va bene, ma noi facciamo quello che fate voi, qui non si discute, noi non vogliamo né spidocchiare, né far da mangiare, cioè facciamo i turni con voi per far da mangiare e per fare i lavori”. [...]non volevo essere subalterna solo in quanto donna! Nonostante tutto però, una volta accettata la loro presenza, gli uomini si comportavano in modo molto educato, rispettoso e addirittura protettivo nei confronti delle giovani partigiane.
“ Poi gli uomini erano di un’accortezza, di una generosità... ci aiutavano più che potevano in tutte le nostre necessità, stavano molto attenti. Meglio convivere con 100 uomini che con 10 donne, perché avevano proprio una delicatezza, un rispetto incredibile. Per esempio quando andavano in azione prendevano il cotone per i feriti e anche per i nostri bisogni, ma per loro era una cosa normale.Questi uomini, quelli più anziani, quelli che avevano già fatto battaglie, che erano stati in Spagna, non si comportavano con noi come dei comandanti, ma come fossero padri di famiglia. Le attenzioni che avevano anche per i ragazzi giovani - 16, 17, 18 anni -! Perché noi eravamo veramente giovani!”
Nascevano simpatie, rapporti, amori nati in montagna, ma si dovevano confrontare con il rigore e il moralismo, tipico soprattutto delle brigate comuniste, che li rendeva difficili, oppure costringeva a regolarizzarli con le nozze partigiane.
Afferma ancora “Gianna”:
“Questo era un problema serio: non si poteva! Io per esempio, quando scesi giù dalla montagna aspettavo il bambino, quindi mi chiedevano: “ma come Gianna aspetti un bambino? e chi è il tuo compagno?”e io “eh, siamo in tanti lassù!” Solo quei tre o quattro più vicini sapevano, ma gli altri no. Io e mio marito ci vedevamo poco, anche perché io andavo molto di rado dov'era lui, perché era giusto così. Quindi noi ci siamo amati clandestinamente. Ma quando succedeva o ci si accorgeva che era una cosa molto aperta, allora venivano divisi: uno andava in un posto e uno andava in un altro perché questo altrimenti poteva essere molto pericoloso... non si lavora volentieri perché si pensa sempre che all’uno o all'altro succeda qualcosa.
Io ho lavorato abbastanza con questo problema e direi che sono stata brava. È molto grave voler bene in guerra!”Erano solo rari, magici momenti perché “ i tedeschi quando andavano in azione erano bestiali, erano proprio una cosa micidiale, forse gli davano anche qualcosa. Massacravano a tutto andare donne e bambini, non c'era via di scampo. Per esempio noi eravamo terrorizzati perché tutto dipendeva da cosa gli rigirava nella testa, perché potevano venire lì e spararti in testa, magari per dirti buongiorno ti sparavano. Ne abbiamo trovati tantissimi in Carnia morti con una pallottola in testa morti senza nessuna ragione, che poi bisognava andarli a recuperare.”
Riuscì a sfuggire all’arresto, rischiando la vita…
“ Dormo in una casa sopra Osoppo, di qua del Tagliamento, delle montagne, in una casa dove vivevano due figlie, marito e moglie. La notte ho fatto il sogno di quello che mi sarebbe capitato di giorno. Mi sveglio che avevo i buchi di pallottole che avevano colpito la testiera del letto. Non sento più sparare, mi alzo e vedo i tedeschi, prendo la mia pistola ma fa cilecca e arriva dentro un tedesco. Mi prende e mi porta fuori in mezzo ad un gruppo di tedeschi. Lì c'era una mitragliatrice pronta, io non capivo più niente, mi guardavo in giro ed ero in sottoveste e scalza. Ho detto loro che dovevo andare in bagno e loro mi mandano uno col fucile ma io ho protestato che non potevo, che era meglio se portavo la signorina - una delle figlie -. In quel momento ho pensato che ero partigiana e che quindi era anche giusto che prendessero me, ma questa ragazza non lo era. Io però dovevo salvarmi la vita e speravo che non le facessero niente. Comunque i tedeschi mi lasciano andare con la ragazza e mi dicono che se io fossi scappata avrebbero preso lei. Vado e arrivo in un punto dove m'è venuto quasi un flash e vedo mia mamma e mio papà. Lì mi è venuto l'istinto di buttarmi giù e mi sono messa a correre, correre, correre e loro hanno iniziato sparare. Sono arrivata a casa di una compagna partigiana dove c'era una donna fuori ed una dentro, tutte e due hanno capito subito e mi hanno dato una mano. Una mi ha asciugata perché ero tutta cosparsa di sangue e l'altra mi ha fasciato i piedi e tutto il resto perché non gocciolasse sangue e mi vestirono da contadina: mi misero un fazzoletto in testa, mi diedero un tovagliolo con la polenta, un fiasco e una gerla vuota. Mi fecero uscire e dietro a me viene il nonno con un rastrello e un falcetto per tagliare il fieno che mi fa camminare dietro a lui. Poi il nonno mi dice “quando arriviamo sotto quella montagna io mi fermo a tagliare l'erba e tu vai su di là fino a quel cocuzzolo dove non ti vedranno né quelli sopra né quelli sotto, ma non ti muovere, stai lì fino a quando non ti veniamo noi a prendere.”“Poi finita la guerra ho ricominciato il mio lavoro, ho cominciato ad occuparmi dello sfruttamento che avevamo sul lavoro e poi lavoravo in pianura come partito: interessarmi del quartiere, occuparmi delle scuole, nella circoscrizione, nella costruzione del nostro quartiere. Le donne uscivano fuori da una guerra e la guerra le ha come risvegliate perché i mariti sono andati in guerra e loro hanno dovuto fare la parte della madre e la parte, del padre cioè vedere come nutrire i figli e sapere come vanno le cose che prima facevano i padri! [...] Tutto ciò è stato il risveglio dalla guerra! Anche perché la donna ha capito che può dare il suo contributo…”
Questa era Fidalma, nome di battaglia Gianna perché come ha raccontato
…” Non so neanche quante carte di identità ho avuto. Però dovevo ricordarmi di stare attenta perché cambia un nome, cambia due, non potevo sbagliare. Comunque mi sono stufata dei nomi ridicoli che mi davano e allora, quando eravamo ormai alla fine della guerra, ho detto “adesso bisogna che cambi nome” e ho pensato - io sono una partigiana, parti – giana – GIANNA
La ballata delle donne
parole da una poesia di Edoardo Sanguineti
Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso alla gioia
pensare al maschio, pensarci mi annoia.
Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso alla pace
pensare al maschio, pensarci non piace.
Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire.
Perchè la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra
ed è la terra, in cui fui seminato,
vita vissuta che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente.
Femmina penso, se penso l'umano
la mia compagna, la prendo per mano.
Nessun commento:
Posta un commento