Riprendendo il libro lo scrittore si confronta con la sua detenzione,durata proprio un mese e un giorno e ci regala un vero e proprio testamento umano e spirituale, politico e civile.Nelle vibranti pagine, l’accusa coraggiosa di un intellettuale che sente tutta la responsabilità del suo ruolo contro un regime cieco e violento, che nega i diritti della gente e svende la terra piegandosi agli interessi economici.Una sorta di profeta disarmato, che affronta una morte inevitabile con dignità e vede oltre, con speranza, un futuro di riscatto. Che proprio per questo ha saputo colpire più a fondo le coscienze intorpidite, anche di quell’Occidente lontano e distratto. Con l’unica arma che aveva scelto e che sentiva di avere a disposizione, ovvero la parola e la scrittura.Per questo motivo è apprezzato in particolare dallo scrittore Roberto Saviano(vedi sotto), che sente nei confronti di Wiwa una sorta di affinità elettiva.
L’urgenza di fondo è simile, nonostante la differenza delle situazioni e dei contesti. Scardinare un sistema oppressivo e una violenza diffusa con la sola forza del verbo. Non il kalashnikov, magari venduto da affaristi simili a quelli che ha combattuto, per diventare poi l’ennesimo signore della guerra che si appoggia alle multinazionali. Di quelli che poi si sostituiscono alla dittatura precedente, nel drammatico balletto già visto del sanguinoso tribalismo africano.Per questa sua scelta di non violenza Ken Saro-Wiwa diventa un insopportabile tafano per il potere, che ha fatto di tutto per silenziarlo. Ma le sue idee e i suoi scritti per fortuna rimangono e riemergono dalle paludi intossicate del Niger anche oggi, a ricordarci un’Africa che aspira ad uscire dall’abisso di povertà e sfruttamento. Senza pietismi.
La storia di Ken attraverso un pezzo di Saviano da Repubblica:
Ken Saro WiwaIL 10 NOVEMBRE 1995 la nazionale di calcio nigeriana si esibisce per la prima volta in patria dopo i mondiali americani, di cui era stata la rivelazione. In quello stesso giorno, mentre un intero Paese festeggia, Ken Saro-Wiwa viene impiccato per l’unica colpa di essere uno scrittore, l’autore di Sozaboy.
Quando il fratello di Ken riceve la notizia dell’esecuzione, chiama un giornalista in Inghilterra. “Hanno ucciso Ken”, gli dice e l’altro risponde che è impossibile: “È intervenuto Bill Clinton; Nelson Mandela ha chiamato il presidente nigeriano; si è mosso il Commonwealth. Non può essere. È una fesseria, ti hanno mentito”.Ma il fratello di Ken sa che non è così, perché ad avvertirlo è stato un carceriere della sua stessa etnia, il popolo Ogoni, che vive sul delta del Niger (…). Il fratello di Ken racconta che si è messo a guardare i caroselli dei tifosi nigeriani, ha provato a fermare qualcuno e così, d’istinto, a dire: “Hanno ucciso Ken Saro-Wiwa”. L’ha fatto perché Ken era molto conosciuto. Ma si era appena disputata una grande partita e la Nigeria aveva vinto. Il presidente nigeriano aveva assistito al trionfo in tribuna, insieme al massimo dirigente della Fifa. Infondo, era solo morto uno scrittore.Con la sua opera, Ken Saro-Wiwa voleva svelare al mondo quanto stava succedendo in Nigeria. Sozaboy è il libro che ci ha permesso di avere un’idea precisa della guerra in Biafra. Le immagini ormai famose dei bambini con il volto scheletrico, il ventre gonfio e le gambe come stecchini, la vita dei bambini soldato (…), è lui che ce le ha fatte scoprire. È lui che è riuscito, attraverso la potenza della letteratura, a diffondere queste storie, a renderle materia. Il petrolio è il centro della battaglia letteraria, intellettuale e politica di Ken. La parola era la sua arma. Oggi i guerriglieri del delta del Niger, che si identificano con la sigla del MEND (Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger), riferendosi senza citarlo a Ken dicono: “Qualcuno ha usato la parola ed è stato impiccato”. E quindi loro imbracciano i fucili. La morte di Ken ha significato per la Nigeria la fine della lotta pacifica. Ken voleva una cosa molto semplice, voleva che le grandi compagnie petrolifere, la Shell su tutte, dividessero i guadagni, al 50%, con chi vive sulle terre che davano i giacimenti petroliferi da loro sfruttati (…). Non pretendeva che non arrivassero più trivelle, o che ad avere gli appalti dovessero essere delle inesistenti società africane. Era un grande intellettuale, sapeva benissimo che la storia aveva preso la sua direzione. Sapeva benissimo che l’Europa aveva i mezzi e l’Africa le risorse. Non era un delirante “difendi balene” come chiamava
gli ecologisti radicali occidentali. Combatteva perché quel petrolio diventasse scuola, teatro, stadio, musica, palazzi, progetti, università. Voleva che quel petrolio fosse vita.Ken era molto noto anche perché era stato autore e produttore della prima e più seguita sit-com africana, Basi and Company, che nelle sue intenzioni doveva far conoscere la realtà del Paese a un grande pubblico, magari divertendolo.
Veniva mandata in onda più o meno negli anni in cui in Italia si programmavano Casa Vianello, I Robinson, A-Team, MiamiVice. Ken spaventava il potere perché le sue storie circolavano, perché se ne parlava a Londra, a Parigi e soprattutto in Nigeria. E perché la sua sit-com raccontava il quotidiano africano (…Oggi, all’improvviso, la vicenda di Ken è tornata di attualità, anche se è scivolata via così sui giornali, senza che le venisse dato troppo peso. È successo che la Shell, la compagnia petrolifera anglo-olandese, una delle più grandi multinazionali del mondo, è stata rinviata a giudizio per la morte di Ken Saro-Wiwa e di altri sei intellettuali nigeriani. Una multinazionale, uno scrittore. Macro e micro. Enorme e minuscolo. Per anni, per decenni, organizzazioni ambientaliste, associazioni politiche hanno cercato di portare in tribunale le multinazionali per i disastri ambientali da loro provocati (…). Non ci sono mai riuscite. C’è voluta la morte di uno scrittore (…). Negli Stati Uniti una avvocatessa si è appellata a una legge semplice e meravigliosa che permette di processare un’azienda anche se quell’azienda non è americana; è sufficiente che faccia affari in America. Così la Shell è stata chiamata a rispondere della morte di Ken Saro-Wiwa. L’accusa: avere fatto pressioni al governo nigeriano perché eliminasse il disturbo mediatico principale. Non un politico, non un guerrigliero, ma uno scrittore (…)Alla fine la Shell ha evitato il giudizio e ha pagato (…). Quindici milioni di dollari: è questo il prezzo della vita di uno scrittore
L’esecuzione di Ken Saro-Wiwa è stata terribile. In Nigeria prima di lui non erano abituati a fare esecuzioni ufficiali, i boia non uccidevano da tempo e come per tragico destino non erano esperti (…). Fecero male il nodo scorsoio del cappio e per ben quattro volte hanno dovuto lanciare il corpo di Ken oltre la botola. Il cappio non gli spezzava il collo ma lo strozzava semplicemente, allora lo ritiravano su. E lui — è scritto, lo ha testimoniato un poliziotto — ripeteva: “Ma perché mi fate questo? Com’è possibile?” Quattro volte. Alla quinta il nodo ha funzionato. E Ken è mortoLe parole di Ken Saro-Wiwa mettevano paura. Le parole di Ken Saro-Wiwa mettono paura, sono pericolose. Una multinazionale e uno Stato tra i più ricchi d’Africa — insieme al Sud Africa la Nigeria è l’avanguardia economica del continente — hanno avuto paura di uno scrittore, di una persona che pubblicava articoli, racconti, romanzi, che produceva sit-com (…).Una delle cose che mi ha sempre colpito di questa vicenda è l’assoluta difficoltà di fare la scelta giusta. Sarebbe un errore enorme definire Ken un eroe, un arcangelo mandato dal destino, una persona capace di sacrifici immani, infallibile. Sarebbe sbagliato nei suoi confronti e anche stupida ingenuità. Equivarrebbe a fare scempio delle sue idee. Una scelta difficile come quella di Ken ti mette in crisi. Compiere una scelta giusta non significa essere sempre un uomo giusto. Esser disposti a perdere molto di sé, al punto da sentirsi persone peggiori ma continuare, cercare di continuare lungo la strada che si crede giusta.Il figlio di Ken, che oggi ne sostiene la memoria, quando suo padre era in vita era arrivato a detestarlo. Ricordo un aneddoto tragico. Per motivi di sicurezza, Ken aveva trasferito la famiglia in Gran Bretagna (…). Un giorno, suo figlio più piccolo muore d’infarto, ad appena dodici anni, mentre gioca a rugby. Aveva una malformazione cardiaca non diagnosticata. Ken vola in Inghilterra, rimane lì due giorni, partecipa alle esequie e se ne va. Il figlio maggiore gli dirà: “Ma come hai potuto? Qui noi siamo disperati. Te ne sei andato nel momento in cui a noi servivano la tua presenza e le tue parole. Che uomo sei?”.Ken soffre moltissimo per questo. Tempo dopo, dal carcere, scrive al figlio che gli risponde: “Io non mi muoverò per te. Io voglio una famiglia. Io voglio bene alla mia famiglia”. Era un modo per dirgli: “Io non intendo far pagare ad altri le mie scelte” (…)Ci sono alcuni suoi versi, composti in carcere, che recitano: “Quello che più mi fa soffrire non è la fame che sento qui, non sono i pugni che mi danno, non è il freddo, non è l’isolamento, non è neanche il fatto di non poter sapere se avrò un processo. Quello che mi fa male è sapere che tutto questo non si conoscerà, è sapere che tutto questo sarà vano”.Ecco perché oggi toccare questo libro, odorarne le pagine, guardarlo, leggerlo significa far sì che continui a essere un’arma pacifica e potentissima in grado di essere antidoto contro ogni meccanismo di potere.
Nel suo ultimo discorso presso il tribunale speciale militare che lo condannò a morte, Ken Saro Wiwa ebbe modo di dire:Signor presidente tutti noi siamo di fronte alla Storia. Io sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra molto generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra; provo fretta di ottenere che il mio popolo riconquisti il suo diritto alla vita e a una vita decente. Così ho dedicato tutte le mie risorse materiali ed intellettuali a una causa nella quale credo totalmente, sulla quale non posso essere zittito. Non ho dubbi sul fatto che, alla fine, la mia causa vincerà e non importa quanti processi, quante tribolazioni io e coloro che credono con me in questa causa potremo incontrare nel corso del nostro cammino. Né la prigione né la morte potranno impedire la nostra vittoria finale.
La vera prigione (poesia K. Saro-Wiwa)
La vera prigione
Non è il tetto che perde
Non sono nemmeno le zanzare che ronzano
Nella umida, misera cella.
Non è il rumore metallico della chiave
Mentre il secondino ti chiude dentro.
Non sono le meschine razioni
insufficienti per uomo o bestia
Neanche il nulla del giorno
Che sprofonda nel vuoto della notte
Non è
Non è
Non è.
Sono le bugie che ti hanno martellato
Le orecchie per un’intera generazione
E’ il poliziotto che corre all’impazzata in un raptus omicida
Mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari
In cambio di un misero pasto al giorno.
Il magistrato che scrive sul suo libro
La punizione, lei lo sa, è ingiusta
La decrepitezza morale
L’inettitudine mentale
Che concede alla dittatura una falsa legittimazione
La vigliaccheria travestita da obbedienza
In agguato nelle nostre anime denigrate
È la paura di calzoni inumiditi
Non osiamo eliminare la nostra urina
E’ questo
E’ questo
E’ questo
Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero
In una cupa prigione.
Nessun commento:
Posta un commento